L'Adorazione dei Magi
28 febbraio 1944
Il mio interno ammonitore mi dice: «Chiama queste contemplazioni, che
avrai e che ti dirò, "i Vangeli della Fede", perché a te
e agli altri verranno ad illustrare la potenza della fede e dei suoi
frutti e a confermarvi nella fede in Dio».
Maria Valtorta (1897-1961) Per approfondire QUI |
Vedo Betlemme piccola e bianca,
raccolta come una chiocciata sotto il lume delle stelle. Due vie
principali la tagliano a croce, l'una venendo da oltre il paese, ed è
la via maestra che poi prosegue oltre il paese, l'altra andando da
un'estremità all'altra dello stesso, ma non oltre.
Altre viuzze lo segmentano, questo
piccolo paese, senza la più piccola norma di piano stradale come noi
lo concepiamo, ma anzi adattandosi al suolo che è a dislivelli ed
alle case sorte qua e là, secondo i capricci del suolo e del loro
costruttore.
Volte quali a destra e quali a manca,
chi messa per spigolo, rispetto alla via che le costeggia, obbligano
questa ad essere come un nastro che si sgomitola sinuosamente e non
un rettilineo che va da qua a là senza deviare.
Ogni tanto una piazzetta, sia per un
mercato, sia per una fontana, sia perché, costruito qui e là senza
regola, è rimasto uno scampolo di suolo sghimbescio su cui non è
possibile costruire più nulla.
Nel punto dove mi pare di sostare
particolarmente è proprio una di queste piazzette irregolari.
Dovrebbe essere quadrata o quanto meno rettangolare. Invece è venuta
un trapezio tanto strano da parere un triangolo acuto smusso nel
vertice.
Nel lato più lungo — la base del
triangolo — vi è un fabbricato largo e basso. Il più largo del
paese. Di fuori è un muraglione liscio e nudo, sul quale si aprono
appena due portoni, ora ben serrati.
Dentro invece, nel suo largo quadrato,
si aprono molte finestre al primo piano, mentre sotto vi sono
porticati che cingono cortili sparsi di paglia e detriti, con delle
vasche per abbeverare cavalli e altri animali.
Alle rustiche colonne
dei portici ci sono anelli per tenere legate le bestie, e su un lato vi
è una vasta tettoia per ricoverare mandrie e cavalcature. Comprendo
che è l'albergo di Betlemme.
Sugli altri due lati uguali sono case e
casette, quali precedute e quali no da un poco d'orto, perché fra
esse vi è quella che è con la facciata sulla piazza, e quella col
retro della casa sulla piazza.
Sull'altro lato più stretto,
fronteggiante il caravanserraglio, un'unica casetta dalla scaletta
esterna che entra a metà facciata nelle camere del piano abitato.
Sono tutte chiuse perché è notte. Non vi è nessuno per le vie,
data l'ora.
Vedo aumentare la luce notturna
piovente dal cielo pieno di stelle, così belle nel cielo orientale,
così vive e grandi che paiono vicine e che sia facile raggiungerle e
toccare quei fiori splendenti nel velluto del firmamento.
Alzo lo sguardo per comprendere la
fonte di questo aumento di luce. Una stella, di insolita grandezza
che la fa parere una piccola luna, si avanza nel cielo di Betlemme. E
le altre paiono eclissarsi e farle largo come ancelle al passare
della regina, tanto il suo splendore le soverchia e annulla.
Dal globo, che pare un enorme zaffiro
pallido, acceso internamente da un sole, parte una scia nella quale,
al predominante colore dello zaffiro chiaro, si fondono i biondi dei
topazi, i verdi degli smeraldi, gli opalescenti degli opali, i
sanguigni bagliori dei rubini e i dolci scintillii delle ametiste.
Tutte le pietre preziose della Terra
sono in quella scia, che spazza il cielo con un moto veloce e
ondulante come fosse viva. Ma il colore che predomina è quello
piovente dal globo della stella: il paradisiaco colore di pallido
zaffiro che scende a fare di argento azzurro le case, le vie, il
suolo di Betlemme, culla del Salvatore.
Non è più la povera città, per noi
meno di un paese rurale. È una fantastica città di fiaba in cui
tutto è d'argento. E l'acqua delle fonti e delle vasche è di
liquido diamante. Con un più vivo raggiare di splendori la stella si
ferma sulla piccola casa che è sul lato più stretto della
piazzetta.
Né i suoi abitanti, né i betlemmiti la
vedono, perché dormono nelle chiuse case, ma essa accelera i suoi
palpiti di luce, e la sua coda vibra e ondeggia più forte tracciando
quasi dei semicerchi nel cielo, che si accende tutto per questa rete
d'astri che essa trascina, per questa rete piena di preziosi che
splendono tingendo dei più vaghi colori le altre stelle, quasi a
comunicare loro una parola di gioia.
La casetta è tutta bagnata da questo
fuoco liquido di gemme. Il tetto della breve terrazza, la scaletta di
pietra scura, la piccola porta, tutto è come un blocco di puro
argento sparso di polvere di diamanti e perle. Nessuna reggia della
Terra ha mai avuto od avrà una scala simile a questa, fatta per
ricevere il passo degli angeli, fatta per esser usata dalla Madre che
è Madre di Dio.
I suoi piccoli piedi di Vergine
Immacolata possono posarsi su quel candido splendore, perché destinati a posarsi sui gradini del trono di Dio. Ma la Vergine
non sa. Essa veglia presso la cuna del Figlio e prega. Nell'anima ha
splendori che superano quelli di cui la stella decora le cose.
Dalla via maestra si avanza una
cavalcata. Cavalli bardati ed altri condotti a mano, dromedari e
cammelli cavalcati o portanti il loro carico. Il suono degli zoccoli
fa un rumore d'acqua che fruscia e schiaffeggia le pietre di un
torrente. Giunti sulla piazza, tutti si fermano. La cavalcata, sotto
il raggio della stella, è fantastica di splendore.
I finimenti delle ricchissime
cavalcature, gli abiti dei loro cavalcatori, i volti, i bagagli,
tutto riluce unendo e ravvivando il bagliore di metallo, di cuoio, di
seta, di gemma, di pelame, al brillio stellare. E gli occhi raggiano
e ridono le bocche, perché un'altra luminosità si è accesa nei
cuori, quella di una gioia soprannaturale.
Mentre i servi si avviano verso il
caravanserraglio con gli animali, tre della carovana smontano dalle
rispettive cavalcature, che un servo subito conduce altrove, e a
piedi vanno verso la casa. E si prostrano, fronte a terra, a baciare
la polvere.
Sono tre potenti. Lo dicono le vesti
ricchissime. Uno, di pelle molto scura, sceso da un cammello, si
avvolge tutto in uno sciamma di candida seta lucente, stretto alla
fronte ed alla vita da un cerchio prezioso, da cui pende un pugnale o
una spada dall'elsa tempestata di gemme.
Gli altri, scesi da due magnifici
cavalli, sono vestiti l'uno di una stoffa rigata, bellissima, in cui
predomina il color giallo, fatto quest'abito come un lungo domino
ornato di cappuccio e di cordone, che paiono un sol lavoro di
filigrana d'oro tanto sono trapunti di ricami dorati.
Il terzo ha una camicia setosa, che
sbuffa da larghe e lunghe brache strette al piede, e si avvolge in
uno scialle finissimo che pare un giardino fiorito tanto sono vivi i
fiori che lo decorano tutto. In testa ha un turbante trattenuto da
una catenella tutta a castoni di diamanti.
Dopo avere venerato la casa dove è il
Salvatore, si rialzano vanno al caravanserraglio, dove i servi hanno
bussato e fatto aprire.
E qui cessa la visione. Che riprende,
tre ore dopo, con la scena dell'adorazione dei Magi a Gesù.
Antico villaggio abbandonato a 45 km da Betlemme |
È giorno, ora. Un bel sole irraggia
nel cielo pomeridiano. Un servo dei tre traversa la piazza e sale la
scaletta della piccola casa. Entra. Esce. Torna all'albergo.
Escono i tre Savi, seguiti ognuno dal
proprio servo. Traversano la piazza. I rari passanti si volgono a
guardare i pomposi personaggi che passano molto lentamente, con
solennità. Fra l'entrata del servo e quella dei tre è passato un
buon quarto d'ora, che ha dato modo agli abitanti della casetta di
prepararsi a ricevere gli ospiti.
Questi sono ancor più riccamente
vestiti della sera avanti. Le sete splendono, le gemme brillano, un
gran pennacchio di penne preziose, sparse di scaglie ancor più
preziose, tremola e sfavilla sul capo di colui che ha il turbante.
I servi portano l'uno un cofano tutto
intarsiato, le cui rinforzature metalliche sono in oro bulinato; il
secondo un lavoratissimo calice, coperto da un ancor più lavorato
coperchio tutto d'oro; il terzo una specie di anfora larga e bassa,
pure in oro e tappata da una chiusura fatta a piramide, che al
vertice porta un brillante. Devono essere pesanti, perché i servi li
portano con fatica, specie quello del cofano.
I tre montano la scala ed entrano.
Entrano in una stanza che va dalla strada al retro della casa. Si
vede l'orticello posteriore da una finestra aperta al sole. Delle
porte si aprono nelle due altre pareti, e da queste sbirciano coloro
che sono i proprietari: un uomo, una donna e tre o quattro fra
giovinetti e bimbi.
Maria è seduta col Bambino in grembo
ed ha vicino Giuseppe in piedi. Però si alza Ella pure e si inchina
quando vede entrare i tre Magi. È tutta vestita di bianco.
Così bella nella sua semplice veste
candida che la copre dalla radice del collo ai piedi, dalle spalle ai
polsi sottili, così bella nella testina coronata di trecce bionde,
nel viso che l'emozione fa più vivamente roseo, negli occhi che
sorridono con dolcezza, nella bocca che s'apre al saluto:
«Dio sia con voi», che i tre si
arrestano un istante colpiti. Poi procedono e le si prostrano ai
piedi. E la pregano di sedere. Essi no, non siedono, per quanto Ella
li preghi di farlo. Essi restano in ginocchio, rilassati sui
calcagni.
Interno della casa di Betlemme, visitata dai Magi, descritta nella visione da Maria Valtorta |
Dietro a loro, pure in ginocchio, sono
i tre servi. Essi sono subito dopo il limitare. Hanno posato davanti
a loro i tre oggetti che portavano, e attendono.
I tre Savi contemplano il Bambino, che
mi pare possa avere dai nove mesi ad un anno, tanto è vispo e
robusto. Egli sta seduto in grembo alla Mamma, e sorride e cinguetta
con una vocina da uccellino.
È vestito tutto di bianco come la
Mamma, con sandaletti ai piedini minuscoli. Una vestina molto
semplice: una tunichella da cui escono i bei piedini irrequieti, le
manine grassottelle che vorrebbero afferrare tutto, e soprattutto la
bellissima faccina nella quale brillano gli occhi azzurro cupo, e la
bocca fa le fossette ai lati ridendo e scoprendo i primi dentini
minuti. I ricciolini sembrano una polvere d'oro tanto sono lucenti e
vaporosi.
Il più vecchio dei Savi parla per
tutti. Spiega a Maria che essi hanno visto, una notte del passato
dicembre, accendersi una nuova stella nel cielo, di inusitato
splendore. Mai le carte del cielo avevano riportato quell'astro e
parlato di esso.
Il suo nome non era conosciuto, perché
essa non aveva nome. Nata allora dal seno di Dio, essa era fiorita
per dire agli uomini una verità benedetta, un segreto di Dio. Ma gli
uomini non le avevano fatto caso, perché avevano l'anima confitta
nel fango. Non alzavano lo sguardo a Dio e non sapevano leggere le
parole che Egli traccia, ne sia in eterno benedetto, con astri di
fuoco sulla volta dei cieli.
Essi l'avevano vista e si erano
sforzati di capirne la voce. Perdendo contenti il poco sonno che
concedevano alle loro membra, dimenticando il cibo, s'erano
sprofondati nello studio dello zodiaco.
E le congiunzioni degli astri, il
tempo, la stagione, il calcolo delle ore passate e delle combinazioni
astronomiche avevano a loro detto il nome e il segreto della stella.
Il suo nome: «Messia». Il suo segreto: «Essere il Messia venuto al
mondo». E si erano partiti per adorarlo.
Ognuno all'insaputa dell'altro. Per
monti e deserti, per valli e fiumi, viaggiando la notte, erano venuti
verso la Palestina, perché la stella andava in tal senso. Per
ognuno, da tre punti diversi della Terra, andava in tal senso. E si
erano trovati poi oltre il mar Morto.
Il volere di Dio li aveva riuniti là,
ed insieme avevano proceduto, intendendosi, nonostante ognuno
parlasse la sua lingua, e intendendo e potendo parlare la lingua del
Paese per un miracolo dell'Eterno.
E insieme erano andati a Gerusalemme,
poiché il Messia doveva essere il Re di Gerusalemme, il Re dei
giudei. Ma la stella si era celata, sul cielo di quella città, ed
essi avevano sentito frangersi di dolore il loro cuore e si erano
esaminati per sapere se avevano demeritato Dio.
Ma avendoli rassicurati la coscienza,
si erano rivolti a re Erode per chiedergli in quale reggia era il
nato Re dei giudei che essi erano venuti ad adorare. E il re,
convocati i principi dei sacerdoti e gli scribi, aveva chiesto dove
poteva nascere il Messia. Ed essi avevano risposto: «A Betlemme di
Giuda».
(Secondo l'antica profezia di Michea 5,1: "E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele"; ndr).
Ed essi erano venuti verso Betlemme e
la stella era riapparsa ai loro occhi, lasciata la Città santa, e la
sera avanti aveva aumentato gli splendori — il cielo era tutto un
incendio — e poi si era fermata, adunando tutta la luce delle altre
stelle nel suo raggio, sopra questa casa. Ed essi avevano compreso
esser lì il Nato divino.
Ed ora lo adoravano, offrendo i loro
poveri doni e più che altro offrendo il loro cuore, che mai avrebbe
cessato di benedire Iddio della grazia concessa e di amare il suo
Nato, di cui vedevano la santa Umanità. Dopo sarebbero tornati a
riferire al re Erode, perché egli desiderava adorarlo esso pure.
«Ecco intanto l'oro come a re si
conviene possedere, ecco l'incenso come a Dio si conviene, ed ecco, o
Madre, ecco la mirra, poiché il tuo Nato è Uomo oltre che Dio, e
della carne e della vita umana conoscerà l'amarezza e la legge
inevitabile del morire.
Simon Dewey - Per approfondire l'aspetto esoterico dei doni QUI e QUI |
Il nostro amore vorrebbe non dirle,
queste parole, e pensarlo eterno anche con la carne come eterno è lo
Spirito suo. Ma, o Donna, se le nostre carte, e più le nostre anime,
non errano, Egli è, il Figlio tuo, il Salvatore, il Cristo di Dio, e
perciò dovrà, per salvare la Terra, levare su Sé il male della
Terra, di cui uno dei castighi è la morte. Questa resina è per
quell'ora.
Perché le carni, che son sante, non
conoscano putredine di corruzione e conservino integrità sino alla
loro risurrezione. E per questo nostro dono Egli di noi si ricordi, e
salvi i suoi servi dando loro il suo Regno».
Per intanto, per esserne santificati,
Ella, la Madre, dia il suo Pargolo «al nostro amore. Che baciando i
suoi piedi scenda in noi benedizione celeste».
Maria, che ha superato lo sgomento
suscitato dalle parole del Sapiente e ha celato la tristezza della
funebre evocazione sotto un sorriso, offre il Bambino. Lo pone sulle
braccia del più vecchio, che lo bacia e ne è accarezzato, poi lo
passa agli altri due.
Gesù sorride e scherza colle catenelle
e le frange dei tre, e guarda curiosamente lo scrigno aperto pieno di
una cosa gialla che luccica, e ride vedendo che il sole fa un
arcobaleno battendo sul brillante del coperchio della mirra.
Poi i tre rendono a Maria il Bambino e
si alzano. Si alza anche Maria. Si inchinano a vicenda, dopo che il
più giovane ha dato un ordine al servo, che esce. I tre parlano
ancora un poco. Non sanno decidersi a staccarsi da quella casa.
Lacrime di emozione sono negli occhi. Infine si dirigono all'uscita,
accompagnati da Maria e Giuseppe.
Morgan Weistling |
Il Bambino ha voluto scendere e dare la
manina al più vecchio dei tre, e cammina così, tenuto per mano da
Maria e dal Savio, che si curvano per tenerlo per mano. Gesù ha il
passetto ancora incerto dell'infante e ride picchiando i piedini
sulla striscia che il sole fa sul pavimento.
Giunti alla soglia — non si deve
dimenticare che la stanza era lunga quanto la casa — i tre si
accomiatano inginocchiandosi ancora una volta e baciando i piedini di
Gesù.
Maria, curva sul Piccino, gli prende la
manina e la guida, facendole fare un gesto di benedizione sul capo di
ogni singolo Mago. È già un segno di croce tracciato dalle ditina
di Gesù, guidate da Maria.
Poi i tre scendono la scala. La
carovana è già lì pronta che attende. Le borchie dei cavalli
splendono al sole del tramonto. La gente si è affollata sulla
piazzetta a vedere l'insolito spettacolo.
Gesù ride battendo le manine. La Mamma
lo ha sollevato e appoggiato al largo parapetto che limita il
pianerottolo e lo tiene con un braccio contro il suo petto perché
non caschi.
Giuseppe è sceso con i tre e regge ad
ognuno la staffa mentre salgono sui cavalli e sul cammello. Ora servi e padroni sono tutti a
cavallo. L'ordine di marcia viene dato. I tre si curvano fin sul
collo della cavalcatura in un ultimo saluto. Giuseppe si inchina,
Maria pure e torna a guidare la manina di Gesù in un gesto di addio
e di benedizione.
Phil McKay |
Dice Gesù:
«Ed ora? Che dirvi ora, o anime che
sentite morire la fede?
Quei Savi d'oriente non avevano nulla
che li assicurasse della verità. Nulla di soprannaturale. Solo il
calcolo astronomico e la loro riflessione che una vita integra faceva
perfetta. Eppure hanno avuto fede. Fede in tutto: fede nella scienza,
fede nella coscienza, fede nella bontà divina.
Per la scienza hanno creduto al segno
della stella nuova, che non poteva che esser "quella",
attesa da secoli dall'umanità: il Messia. Per la coscienza hanno
avuto fede nella voce della stessa che, ricevendo "voci"
celesti, diceva loro:
"È quella stella che segna
l'avvento del Messia". Per la bontà hanno avuto fede che Dio
non li avrebbe ingannati e, poiché la loro intenzione era retta, li
avrebbe aiutati in ogni modo per giungere allo scopo.
E sono riusciti. Essi soli, fra tanti
studiosi dei segni, hanno compreso quel segno, perché essi soli
avevano nell'anima l'ansia di conoscere le parole di Dio con un fine
retto, che aveva a principale pensiero quello di dare subito a Dio
lode ed onore.
Non cercavano un utile proprio. Anzi
vanno incontro a fatiche e a spese, e nulla chiedono di compenso che
sia umano. Chiedono soltanto che Dio di loro si ricordi e li salvi
per l'eternità.
Come non hanno nessun pensiero di
futuro compenso umano, così non hanno, quando decidono il viaggio,
nessuna umana preoccupazione.
Voi vi sareste messi mille cavilli:
"Come farò a fare tanto viaggio in paesi e fra popoli di lingua
diversa? Mi crederanno o mi imprigioneranno come spia? Che aiuto mi
daranno nel passare deserti e fiumi e monti? E il caldo? E il vento
degli altipiani? E le febbri stagnanti lungo le zone paludose? E le
fiumane gonfiate dalle piogge? E il cibo diverso? E il differente
linguaggio? E... e... e".
Così ragionate voi. Essi non ragionano
così. Dicono con sincera e santa audacia: "Tu, o Dio, ci leggi
nel cuore e vedi che fine perseguiamo. Nelle tue mani ci affidiamo.
Concedici la gioia sovrumana di adorare la tua Seconda Persona fatta
Carne per la salute del mondo". Basta. E si mettono in cammino
dalle Indie lontane.
(Gesù mi dice poi che per Indie vuol
dire l'Asia meridionale, dove ora sono il Turchestan, l'Afghanistan e
la Persia)
Dalle catene mongoliche sulle quali
spaziano unicamente le aquile e gli avvoltoi e Dio parla col rombo
dei venti e dei torrenti e scrive parole di mistero sulle pagine
sterminate dei nevai.
Dalle terre in cui nasce il Nilo e
procede, vena verde azzurra, incontro all'azzurro cuore del
Mediterraneo, né picchi, né selve, né arene, oceani asciutti e più
pericolosi di quelli marini, fermano il loro andare.
E la stella brilla sulle loro notti,
negando loro di dormire. Quando si cerca Dio, le abitudini animali
devono cedere alle impazienze e alle necessità sovraumane.
La stella li prende da settentrione, da
oriente e da meridione, e per un miracolo di Dio procede per tutti e
tre verso un punto, come, per un altro miracolo, li riunisce dopo
tante miglia in quel punto, e per un altro dà loro, anticipando la
sapienza pentecostale, il dono di intendersi e di farsi intendere
così come è nel Paradiso, dove si parla un'unica lingua, quella di
Dio.
Un unico attimo di sgomento li assale
quando la stella scompare e, umili perché sono realmente grandi, non
pensano che sia per la malvagità altrui che ciò avviene, non
meritando i corrotti di Gerusalemme di vedere la stella di Dio. Ma
pensano di avere demeritato di Dio loro stessi, e si esaminano con
tremore e contrizione già pronta a chiedere perdono.
Ma la loro coscienza li rassicura.
Anime use alla meditazione, hanno una coscienza sensibilissima,
affinata da una attenzione costante, da una introspezione acuta, che
ha fatto del loro interno uno specchio su cui si riflettono le più
piccole larve degli avvenimenti giornalieri.
Ne hanno fatto una maestra, una voce
che avverte e grida al più piccolo, non dico errore, ma sguardo
all'errore, a ciò che è umano, al compiacimento di ciò che è io.
Perciò, quando essi si pongono di fronte a questa maestra, a questo
specchio severo e nitido, sanno che esso non mentirà. Ora li
rassicura ed essi riprendono lena.
"Oh! dolce cosa sentire che nulla
è in noi di contrario a Dio! Sentire che Egli guarda con compiacenza
l'animo del figlio fedele e lo benedice. Da questo sentire viene
aumento di fede e fiducia, e speranza, e fortezza, e pazienza. Ora è
tempesta. Ma passerà, poiché Dio mi ama e sa che lo amo, e non
mancherà di aiutarmi ancora".
Così parlano coloro che hanno la pace
che viene da una coscienza retta, che è regina di ogni loro azione.
Ho detto che erano "umili perché erano realmente grandi".
Nella vostra vita, invece, che avviene?
Che uno, non perché è grande, ma perché è più prepotente, e si
fa potente per la sua prepotenza e per la vostra idolatria sciocca,
non è mai umile.
Afghanistan: la Bamiyan Valley, dove è stata distrutta dai Talebani l'antichissima statua del Budda. |
Ci sono dei disgraziati che, solo per
essere maggiordomi di un prepotente, uscieri di un ufficio,
funzionari in una frazione, servi insomma di chi li ha fatti tali, si
danno delle pose da semidei. E fanno pietà!...
Essi, i tre Savi, erano realmente
grandi. Per virtù soprannaturali per prima cosa, per scienza per
seconda cosa, per ricchezza per ultima cosa.
Ma si sentono un nulla, polvere sulla
polvere della Terra, rispetto al Dio altissimo, che crea i mondi con
un suo sorriso e li sparge come chicchi di grano per saziare gli
occhi degli angeli coi monili delle stelle.
Ma si sentono nulla rispetto al Dio
altissimo, che ha creato il pianeta su cui vivono e lo ha fatto
variato mettendo, Scultore infinito d'opere sconfinate, qua, con una
ditata del suo pollice, una corona di dolci colline, e là
un'ossatura di gioghi e di picchi, simili a vertebre della Terra, di
questo corpo smisurato a cui sono vene i fiumi, bacini i laghi, cuori
gli oceani, veste le foreste, veli le nubi, decorazioni i ghiacciai
di cristallo, gemme i turchesi e gli smeraldi, gli opali e i berilli
di tutte le acque che cantano, con le selve e i venti, il grande coro
di laude al loro Signore.
Ma si sentono nulla nella loro sapienza
rispetto al Dio altissimo, da cui la loro sapienza viene e che ha
dato loro occhi più potenti di quelle due pupille per cui vedono le
cose: occhi dell'anima, che sanno leggere nelle cose la parola non
scritta da mano umana, ma incisa dal pensiero di Dio.
Ma si sentono nulla nella loro
ricchezza: atomo rispetto alla ricchezza del Possessore
dell'Universo, che sparge metalli e gemme negli astri e pianeti e
soprannaturali dovizie, inesauste dovizie, nel cuore di chi l'ama.
E, giunti davanti ad una povera casa,
nella più meschina delle città di Giuda, essi non scrollano il capo
dicendo: "Impossibile", ma curvano la schiena, le
ginocchia, e specie il cuore, e adorano. Là, dietro quel povero
muro, è Dio.
Quel Dio che essi hanno sempre
invocato, non osando mai, neppur lontanamente, sperare di averlo a
vedere. Ma invocato per il bene di tutta l'umanità, per il "loro"
bene eterno. Oh! questo solo si auguravano. Di poterlo vedere,
conoscere, possedere nella vita che non conosce più albe e tramonti!
Egli è là, dietro quel povero muro.
Chissà se il suo cuore di Bambino, che è pur sempre il cuore di un
Dio, non sente questi tre cuori che, proni nella polvere della via,
squillano: "Santo, Santo, Santo. Benedetto il Signore Iddio
nostro. Gloria a Lui nei Cieli altissimi e pace ai suoi servi.
Gloria, gloria, gloria e benedizione"?
Essi se lo chiedono con tremore di
amore. E per tutta la notte e la seguente mattina preparano con la
preghiera più viva lo spirito alla comunione con il Dio-Bambino.
Non vanno a questo altare, che è un
grembo verginale portante l'Ostia divina, come voi vi andate con
l'anima piena di sollecitudini umane. Essi dimenticano sonno e cibo
e, se prendono le vesti più belle, non è per sfoggio umano ma per
fare onore al Re dei re.
Nelle regge dei sovrani i dignitari
entrano con le vesti più belle. E non dovrebbero essi andare da
questo Re con le loro vesti di festa? E quale festa più grande di
questa per loro?
Oh! nelle loro terre lontane, più e
più volte si sono dovuti ornare per degli uomini pari a loro. Per
far loro festa e onore. Giusto dunque umiliare ai piedi del Re
supremo porpore e gioielli, sete e preziose piume.
Mettergli ai piedi, ai dolci piccoli
piedi, le fibre della Terra, le gemme della Terra, le piume della
Terra, i metalli della Terra — sono ancora opera sua — perché
esse pure, queste cose della Terra, adorino il loro Creatore.
E sarebbero felici se la Creaturina
ordinasse loro di stendersi al suolo e fare un vivo tappeto ai suoi
passetti di Bambino, e li calpestasse, Egli che ha lasciato le stelle
per loro, polvere, polvere, polvere.
Umili e generosi. E ubbidienti alle
"voci" dell'Alto. Esse comandano di portare doni al Re
neonato. Ed essi portano doni. Non dicono: "Egli è ricco e non
ne ha bisogno. È Dio e non conoscerà la morte". Ubbidiscono. E
sono coloro che per primi sovvengono la povertà del Salvatore.
Come provvido è quell'oro per chi
domani sarà fuggiasco! Come significativa è quella resina a chi
presto sarà ucciso! Come pio è quell'incenso a chi dovrà sentire
il lezzo delle lussurie umane ribollenti intorno alla sua purezza
infinita!
Umili, generosi, ubbidienti e
rispettosi l'uno dell'altro. Le virtù generano sempre altre virtù.
Dalle virtù volte a Dio, ecco le virtù volte al prossimo. Rispetto,
che è poi carità. Al più vecchio è deferito di parlare per tutti,
di ricevere per primo il bacio del Salvatore, di sorreggerlo per la
manina.
Gli altri potranno vederlo ancora. Ma
egli no. È vecchio, e prossimo è il suo giorno di ritorno a Dio. Lo
vedrà, questo Cristo, dopo la sua straziante morte e lo seguirà,
nella scia dei salvati, nel ritorno al Cielo. Ma non lo vedrà più
su questa Terra. E allora per suo viatico gli rimanga il tepore della
piccola mano, che si affida alla sua già rugosa.
Nessuna invidia negli altri. Ma anzi un
aumento di venerazione per il vecchio sapiente. Ha meritato certo più
di loro e per più lungo tempo. Il Dio-Infante lo sa. Ancora non
parla, la Parola del Padre, ma il suo atto è parola. E sia benedetta
la sua innocente parola, che designa costui come il suo prediletto.
Ma, o figli, vi sono altri due
insegnamenti da questa visione.
Il contegno di Giuseppe che sa stare al
"suo" posto. Presente come custode e tutore della Purezza e
della Santità. Ma non usurpatore dei diritti di queste. È Maria col
suo Gesù che riceve omaggi e parole. Giuseppe ne giubila per Lei e
non si accora d'esser figura secondaria.
Giuseppe è un giusto, è il Giusto. Ed
è giusto sempre. Anche in quest'ora. I fumi della festa non gli
salgono al capo. Resta umile e giusto.
Del Parson |
È felice di quei doni. Non per sé. Ma
perché pensa che con essi potrà fare più comoda la vita alla Sposa
e al dolce Bambino. Non vi è avidità in Giuseppe. Egli è un
lavoratore e continuerà a lavorare. Ma che "Loro", i suoi
due amori, abbiano agio e conforto.
Né lui né i Magi sanno che quei doni
serviranno ad una fuga e ad una vita d'esilio, nelle quali le
sostanze dileguano come nube percossa dai venti, e ad un ritorno in
patria dopo aver tutto perduto, clienti e suppellettili, e salvate
solo le mura della casa, protetta da Dio perché là Egli si è
congiunto alla Vergine e si è fatto Carne.
Giuseppe è umile, egli, custode di Dio
e della Madre di Dio e Sposa dell'Altissimo, sino a reggere la staffa
a questi vassalli di Dio. È un povero legnaiuolo, perché la
prepotenza umana ha spogliato gli eredi di Davide dei loro averi
regali. Ma è sempre stirpe di re ed ha tratti di re. Anche per lui
va detto: "Era umile perché era realmente grande".
Ultimo, soave, indicatore insegnamento.
È Maria che prende la mano di Gesù,
che non sa ancora benedire, e la guida nel gesto santo. È sempre
Maria che prende la mano di Gesù e la guida. Anche ora. Ora Gesù sa
benedire. Ma delle volte la sua mano trafitta cade stanca e
sfiduciata, perché sa che è inutile benedire. Voi distruggete la
mia benedizione. Cade anche sdegnata perché voi mi maledite.
E allora è Maria che leva lo sdegno a
questa mano col baciarla. Oh! il bacio di mia Madre! Chi resiste a
quel bacio? E poi prende con le sue dita sottili, ma così
amorosamente imperiose, il mio polso e mi forza a benedire.
Non posso respingere mia Madre. Ma
bisogna andare da Lei per farla Avvocata vostra. Essa è la mia
Regina prima d'esser la vostra, ed il suo amore per voi ha indulgenze
che neppure il mio conosce.
Ed Essa, anche senza parole ma con le
perle del suo pianto e col ricordo della mia Croce, il cui segno mi
fa tracciare nell'aria, perora la vostra causa e mi ammonisce: Sei il
Salvatore. "Salva".
Ecco, figli, il "vangelo della
fede" nell'apparizione della scena dei Magi. Meditate e imitate.
Per il vostro bene».
Relazione e cura: Sebirblu.blogspot.it
Fonte: "Il
Poema dell'Uomo-Dio"
1° Vol.
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