Sebirblu, 14 ottobre 2017
Raramente, come i miei Lettori sanno,
mi occupo di politica, ma la notizia che proprio ieri 13 ottobre 2017
‒ giorno di chiusura del centenario delle apparizioni di Fatima ‒
il presidente americano abbia dichiarato ufficialmente di voler
cancellare l'accordo sul nucleare con l'Iran, stipulato nel 2015 da
Obama, mi ha indotto a pensare che non si tratti per nulla di una
"coincidenza", ma una risposta rabbiosa del Maligno ed un'accelerata ai tempi finali.
I cento anni a sua disposizione (ved. QUI) sembrano infatti pressoché terminati, in concomitanza con quelli di Maria, e non vorrei che l'annuncio diffuso da Trump possa essere l'inizio di un ultimo micidiale "colpo di coda" per scatenare l'inferno sulla Terra.
Ecco perciò un interessante articolo
chiarificatore (un altro QUI, con video), appena pubblicato dal giornalista indipendente Stefano Graziosi, collaboratore di diverse testate ed esperto di affari internazionali, soprattutto USA.
Donald Trump e il leader dell'Iran Hassan Rouhani |
L'IRAN
DELL'ERA TRUMP, A METÀ STRADA TRA MOSCA E PYONGYANG
"Donald Trump ha rifiutato ieri di
certificare l'accordo sul nucleare con l'Iran, minacciando di
stracciarlo del tutto, qualora non si vieti a Teheran di costruire
armi nucleari o missili intercontinentali.
In base al trattato, il presidente
statunitense deve infatti dare la propria certificazione all'intesa
ogni trimestre, per verificare che i termini dell'accordo siano
rigorosamente rispettati. Dopo aver dato il benestare per due volte
negli ultimi mesi, Trump ha deciso per un passo indietro.
Una scelta non propriamente inattesa,
dal momento che – alcune settimane fa – l'ambasciatrice statunitense
alle Nazioni Unite, Nikki Haley, aveva usato parole molto dure verso
la politica nucleare iraniana, lasciando intendere che il magnate
fosse intenzionato a sospendere l'intesa con Teheran.
Siglato alla fine del 2015 da Barack
Obama, il trattato prevedeva di stemperare le tensioni che dividevano
da decenni le due nazioni.
Se ai tempi dello Scià, Teheran
rappresentava un alleato importantissimo di Washington in Medio
Oriente, l'ascesa al potere dell'ayatollah Khomeini nel 1979 cambiò
drasticamente le cose.
L'allora presidente americano, Jimmy
Carter, credette inizialmente di poter portare i rivoluzionari
iraniani dalla propria parte, visto il loro radicale anticomunismo.
Un calcolo che si sarebbe rivelato
assolutamente fallimentare: Khomeini bollò lo Zio Sam di essere il
"Grande Satana", interruppe le relazioni diplomatiche con
gli Stati Uniti e prese in ostaggio il personale dell'ambasciata
americana a Teheran.
Ruhollah Khomeyni e Jimmy Carter |
Uno smacco pesantissimo per Carter, il
quale – anche per questo – si vide sconfitto alle presidenziali
del 1980 dal candidato repubblicano, Ronald Reagan. E proprio con
Reagan i rapporti tra le due potenze continuarono a peggiorare.
Per quanto, nonostante la retorica
ostile usata da entrambe le parti, i due nemici pare commerciassero
allegramente armi sottobanco.
In barba alle decisioni del Congresso
(che aveva comminato un embargo a Teheran), pezzi importanti
dell'amministrazione Reagan vendevano materiale bellico agli
iraniani, usando il ricavato per finanziare i Contras in Nicaragua.
La cosa fu svelata nel 1985: scoppiò
così lo scandalo Irangate, il quale arrivò a lambire lo stesso
presidente. Tanto che qualcuno arrivò addirittura a parlare di
impeachment. Da allora, i rapporti non sono comunque migliorati.
In particolare negli anni 2000, George
Walker Bush intrattenne relazioni molto tese con l'allora presidente
iraniano Maḥmūd Aḥmadinežād, per le sue posizioni bellicose
tanto verso gli Stati Uniti quanto verso Israele. E – soprattutto
in quel periodo – Teheran iniziò ad essere temuta sempre più sul
fronte della politica nucleare.
In questo clima durissimo, fatto di
sanzioni e parole grosse, l'amministrazione Obama cercò di cambiare
le cose. Complice anche l'ascesa al potere in Iran del premier Rohani
(un profilo di tendenze moderate), Obama cercò di intraprendere la
via del disgelo.
Il tentativo non nasceva da esigenze
umanitarie ma da un calcolo geopolitico: da sempre favorevole a un
graduale disimpegno americano nella regione mediorientale, Obama era
convinto della necessità di rinfocolare le rivalità storiche
presenti in quel territorio.
Un'apertura all'Iran avrebbe così
rappresentato uno schiaffo politico all'Arabia Saudita e avrebbe
inoltre alimentato l'astio (proprio un comportamento da "Premio Nobel per la Pace"; ndr) tra questi due storici nemici.
In questo
contesto, vennero maturando le trattative per raggiungere un'intesa
sul nucleare con Teheran: trattative a cui, oltre a Stati Uniti e
Iran, presero parte Regno Unito, Russia, Francia, Cina e Germania.
L'«Iran Deal» (deal = accordo; ndr) prevedeva dunque che i
paesi occidentali abolissero man mano le sanzioni economiche imposte
all'Iran negli ultimi anni, mentre quest'ultimo accettava di limitare
il suo programma nucleare, consentendo inoltre controlli da parte
delle Nazioni Unite alle proprie installazioni nucleari.
L'intesa fu salutata come una vittoria
netta dell'amministrazione Obama. Eppure, negli Stati Uniti, le
polemiche si accesero subito.
Barack Obama e Hassan Rouhani |
Il Partito Repubblicano, che deteneva
già allora la maggioranza al Congresso, si disse assolutamente
contrario a ratificare un simile accordo: in particolare, il senatore
Tom Cotton, ha ripetutamente affermato che non sia possibile fidarsi
dell'Iran e che Teheran userebbe queste concessioni per armarsi
pericolosamente ai danni degli Stati Uniti.
Non a caso, nel corso della campagna
elettorale, quasi tutti i candidati repubblicani (da Jeb Bush a Marco
Rubio, passando per Ted Cruz) sostenevano la necessità di
smantellare l'intesa e tornare alle sanzioni.
La stessa Hillary Clinton, a sinistra,
aveva sempre mostrato scetticismo verso quel trattato, nonostante
alcune dichiarazioni di facciata. Paradossalmente, era proprio Trump
ad aver assunto la posizione più moderata in materia, invocando una
rinegoziazione del trattato, anziché una sua abolizione.
Una linea morbida, dunque,
probabilmente dettata dal fatto che il magnate avesse intenzione di
attuare un disgelo verso la Russia (di cui l'Iran è uno storico
alleato mediorientale). Eppure, dopo la vittoria novembrina, molte
cose sono cambiate.
Il ricatto politico subìto dai nemici
repubblicani a causa dello scandalo Russiagate ha costretto il neo
presidente a rivedere molte delle sue posizioni in politica estera.
Dalla Russia alla Siria, venendo finalmente allo stesso Iran.
Trump si è così trasformato via via
in un falco, scendendo a patti con le frange maggiormente
anti-iraniane del Partito Repubblicano (dal direttore della CIA, Mike
Pompeo, alla stessa Nikki Haley, da sempre particolarmente vicina
alle galassie neoconservatrici). (Cfr. anche QUI e QUI; ndr).
In tal senso, rifiutando la
certificazione, Trump passa la palla al Congresso, consentendogli di
decidere se reimporre le sanzioni (stracciando l'accordo). Una
possibilità non solo chiesta da mesi a gran voce da molti
repubblicani ma anche da qualche democratico.
In tutto questo, non dobbiamo
dimenticarci poi di un ulteriore problema. Quello della Corea del
Nord. Nei primi anni 2000, George Walker Bush era solito parlare del
cosiddetto "Asse del Male": un insieme di Paesi ostili agli
Stati Uniti e mossi da intenti terroristici che, secondo lui, andava
dall'Iraq all'Iran alla stessa Corea del Nord.
Già alla fine del 2015, il Wall Street
Journal mostrò che vi fossero scambi tra Teheran e Pyongyang in
termini di tecnologia nucleare. Scambi che sono stati recentemente
confermati.
Non è quindi assolutamente escludibile che la scelta di
Trump sull'Iran sia finalizzata a cercare di colpire indirettamente
il programma nucleare nordcoreano.
Ecco perché il passo indietro del
presidente sembra avere alla sua base una serie di cause complesse:
dalla politica interna alla geopolitica.
E, mentre i leader europei si sono detti in sostanziale disaccordo con la decisione statunitense, l'Iran ha risposto picche, raffreddando i rapporti. E in tutto questo, la strada del disgelo americano verso il Cremlino si fa sempre più in salita.
Stefano Graziosi
Fonte: glistatigenerali.com
Post Scriptum
La mossa di Donald Trump, la
sconfessione dell'accordo sul nucleare, «apre uno scenario molto
rischioso». Ed anche se «oggi ci sembra difficile, aumentano le
probabilità di conflitto tra Stati Uniti e Iran. Tempo sei mesi ‒
un anno».
Ecco quello che ha detto
nell'intervista fattagli, il trentanovenne Ben Rhodes, ex vice
consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, che ha
seguito le trattative sul «Piano d'azione congiunto globale»
firmato il 14 luglio 2015 dall'Iran e da Stati Uniti, Cina, Russia,
Gran Bretagna, Francia, Germania.
Ed ha concluso:
«La Costituzione assegna al presidente
grandi poteri per quanto riguarda la sicurezza internazionale. Se
vuole può ordinare di bombardare un altro Paese, senza nemmeno avvertire il Congresso ed anche se il suo segretario alla Difesa è
contrario.
Trump ha dimostrato di trovarsi a suo
agio nel minacciare altri Stati o altre realtà, come nel caso del
bando sui viaggiatori dei Paesi musulmani. Più è isolato, più è
probabile che usi i suoi poteri».
Fonte con l'articolo integrale:
corriere.it/esteri
Relazione, adattamento e cura: Sebirblu.blogspot.it
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