martedì 17 gennaio 2023

"Pensieri in Libertà" di Giorgio Agàmben

Sebirblu, 16 gennaio 2023

Per chi non conoscesse ancora la mente e la preparazione intellettuale del filosofo, saggista e pluri-premiato scrittore, nonché docente universitario Giorgio Agàmben, può documentarsi QUI e QUI sul sito composto da alcuni suoi allievi dal quale provengono i brani esposti.

La sua posizione ferma contro i soprusi e le prevaricazioni del mondo, soprattutto negli ultimi tempi pandemici, gli ha inviso i mezzi di comunicazione più importanti, boicottandone il pensiero e l'espressione a più riprese... ma la Verità, in barba a qualsiasi potere umano, non potrà MAI essere taciuta del tutto, perché un germoglio inatteso affiorerà sempre, anche dal cemento più duro...




La Verità e il Nome di Dio

È da quasi un secolo che i filosofi parlano della morte di Dio e, come spesso accade, questa verità sembra oggi tacitamente e quasi inconsapevolmente accettata dall'uomo comune, senza che ne siano tuttavia misurate e comprese le conseguenze.

Una di queste – e certamente non la meno rilevante – è che Dio – o, piuttosto, il suo nome – era la prima e ultima garanzia del nesso fra il linguaggio e il mondo, fra le parole e le cose.

Di qui l'importanza decisiva nella nostra cultura dell'argomento ontologico, che stringeva insolubilmente insieme Dio e il linguaggio, e del giuramento pronunciato sul nome di Dio, che obbligava a rispondere della trasgressione del vincolo fra le nostre parole e le cose.

Se la morte di Dio non può che implicare il venir meno di questo vincolo, ciò significa allora che nella nostra società il linguaggio è diventato costitutivamente menzogna.

Senza la chiara garanzia del nome di Dio, ogni discorso, come il giuramento che ne assicurava la verità, non è più che vanità e spergiuro.

È quanto abbiamo visto apparire in piena luce in questi ultimi anni, quando ogni parola proferita dalle istituzioni e dai media era soltanto vacuità e impostura.

Viene ora al suo termine ultimo un'epoca quasi bimillenaria della cultura occidentale, che fondava la sua verità e i suoi saperi sul rapporto fra Dio e il logos, fra il nome sacrosanto di Dio e i semplici nomi delle cose.





E non è certo un caso se solo gli algoritmi e non la parola sembrano ancora custodire un qualche legame col mondo, ma questo soltanto nella forma della probabilità e della statistica, perché anche i numeri non possono alla fine che rimandare ad un uomo parlante, implicando ancora in qualche modo dei nomi.

Se abbiamo perduto la fede  nel nome di Dio,  se non  possiamo più  credere nel Dio del giuramento e dell'argomento ontologico, non è, però, escluso che sia possibile un'altra figura della verità, che non sia soltanto la corrispondenza teologicamente obbligata fra la parola e la cosa.

Una verità che non si esaurisca nel garantire l'efficacia del logos, ma faccia in esso salva l'infanzia dell'uomo e custodisca ciò che in lui è ancora muto come il contenuto più intimo e vero delle sue parole.

Possiamo ancora credere in un Dio infante, come quel Gesù bambino che, come ci è stato insegnato, i potenti volevano e vogliono ad ogni costo uccidere.




Il Lecito, l'Obbligatorio e il Proibito

Secondo i giuristi arabi, le azioni umane si classificano in cinque categorie, che essi elencano in questo modo: obbligatorio, lodevole, lecito, riprovevole, proibito.

All'obbligatorio  si oppone il proibito,  a ciò  che merita lode  ciò che  è da riprovare. Ma la categoria  più importante  è quella  che  sta  al centro e che costituisce  per  così dire l'asse della bilancia che pesa le azioni umane e ne misura la responsabilità (quest'ultimo termine nel linguaggio giuridico arabo equivale a «peso»).

Se lodevole è ciò il cui compimento è premiato e la cui omissione non è proibita, e riprovevole è ciò la cui omissione è premiata e il cui compimento non è proibito, il lecito è ciò su cui il diritto non può che tacere e non è pertanto né obbligatorio né proibito, né lodevole né riprovevole.

Esso corrisponde allo stato paradisiaco, nel quale le azioni umane non producono alcuna responsabilità, non sono in alcun modo «pesate» dal diritto.

Ma – e questo è il punto decisivo – secondo i giuristi arabi è bene che questa zona di cui il diritto non può in alcun modo occuparsi sia la più ampia possibile, perché la giustizia di una città si misura proprio dallo spazio che lascia libero dalle norme e dalle sanzioni, dai premi e dalle censure.

Nella società in cui viviamo sta avvenendo esattamente il contrario. La zona del lecito si restringe ogni giorno di più e una ipertrofia normativa senza precedenti tende a non lasciare alcun ambito della vita umana fuori dall'obbligo e dalla proibizione.





Gesti e abitudini che erano sempre stati considerati indifferenti al diritto vengono ora minuziosamente normati e puntualmente sanzionati, al punto che non vi è quasi più una sfera dei comportamenti umani che si possa considerare semplicemente lecita.

Prima non meglio identificate ragioni di sicurezza e poi, in misura crescente, ragioni di salute hanno reso obbligatoria un'autorizzazione per compiere gli atti più abituali e innocenti, come passeggiare per strada, entrare in un locale pubblico o recarsi nel luogo di lavoro.

Una società che restringe a tal punto l'ambito paradisiaco dei comportamenti non pesati dal diritto è non soltanto, come ritenevano i giuristi arabi, una società ingiusta, ma è propriamente una società invivibile, in cui ogni azione deve burocraticamente essere autorizzata e giuridicamente sanzionata e l'agio e la libertà dei costumi, la dolcezza delle relazioni e delle forme di vita si riducono fino a scomparire.

La quantità delle leggi, dei decreti e dei regolamenti è inoltre tale, che non soltanto diventa necessario ricorrere a degli esperti per sapere se una certa azione è lecita o proibita, ma perfino i funzionari incaricati di applicare le norme si confondono e contraddicono.

In una simile società, l'arte della vita non può che consistere nel ridurre al minimo la parte dell'obbligatorio e del proibito e nell'allargare per converso al massimo la zona del lecito, la sola in cui se non una felicità, almeno una letizia diventa possibile.

Ma questo è proprio quanto gli sciagurati che ci governano si ingegnano in ogni modo ad impedire e a rendere difficile, moltiplicando le norme e i regolamenti, i controlli e le verifiche.

Finché la tetra macchina che hanno costruito rovinerà su se stessa, inceppata dalle stesse regole e dagli stessi dispositivi che dovevano permetterne il funzionamento.



Una buona notizia

Nella cupa situazione in cui ci troviamo ci sono a volte delle buone notizie. Una di queste è per me la decisione della stampa cosiddetta del mainstream di non recensire i miei libri e di non nominare in alcun modo il mio nome.

Che il mio nome compaia su quelle pagine che nei due ultimi anni hanno mostrato il loro servilismo sarebbe per me causa di disagio e non posso che essere molto grato ai giornalisti per la loro decisione.

Il contegno dei media in questi due anni resterà infatti come una delle pagine più vergognose nella storia del nostro paese.

Quando un giorno gli storici indagheranno su quanto è avvenuto, i media figureranno in prima linea fra i complici di crimini politici di cui soltanto allora si potrà forse misurare pienamente l'entità.

Apparirà allora senza possibili scusanti la responsabilità dei giornalisti che, com'era avvenuto nel ventennio fascista, sapevano e nondimeno hanno obbedito senza porsi problemi agli ordini dei loro direttori.

Perché hanno taciuto? Perché hanno obbedito?




Sul tempo che viene

Ciò che sta oggi avvenendo su scala planetaria è certamente la fine di un mondo. Ma non – come per coloro che cercano di governarla secondo i loro interessi – nel senso di un trapasso a un mondo più consono alle nuove necessità dell'umano consorzio.

Tramonta l'età delle democrazie borghesi, coi suoi diritti, le sue costituzioni e i suoi parlamenti; ma, al di là della scorza giuridica, certo non irrilevante, a finire è innanzitutto il mondo che era iniziato con la rivoluzione industriale e cresciuto fino alle due – o tre – guerre mondiali e ai totalitarismi, tirannici o democratici, che le hanno accompagnate.

Se le potenze che governano il mondo hanno ritenuto di dover ricorrere a misure e dispositivi così estremi come la biosicurezza e il terrore sanitario, che hanno istaurato ovunque e senza riserve, ma che minacciano ora di sfuggir loro di mano, ciò è perché temevano secondo ogni evidenza di non aver altra scelta per sopravvivere.

E se la gente ha accettato le misure dispotiche e le costrizioni inaudite cui è stata sottoposta senza alcuna garanzia, ciò non è soltanto per la paura della pandemia, ma presumibilmente perché, più o meno inconsapevolmente, sapeva che il mondo in cui aveva vissuto fin allora non poteva continuare, era troppo ingiusto e inumano.

Va da sé che i governi preparano un mondo ancora più inumano, ancora più ingiusto; ma in ogni caso, da una parte e dall'altra, si presagiva in qualche modo che il mondo di prima – come si comincia ora a chiamarlo – non poteva continuare.

Vi è certamente in questo, come in ogni oscuro presentimento, un elemento religioso. La salute si è sostituita alla salvezza, la vita biologica ha preso il posto della vita eterna e la Chiesa, ormai da troppo tempo abituata a compromettersi con le esigenze mondane, ha più o meno esplicitamente acconsentito a questa sostituzione.

Non rimpiangiamo questo mondo che finisce, non abbiamo alcuna nostalgia per l'idea dell'umano e del divino che le onde implacabili del tempo stanno cancellando come un volto di sabbia sul bagnasciuga della storia.

Ma con altrettanta decisione rifiutiamo la nuda vita muta e senza volto e la religione della salute che i governi ci propongono.

Non aspettiamo né un nuovo dio né un nuovo uomo – cerchiamo piuttosto qui e ora, fra le rovine che ci circondano, un'umile, più semplice forma di vita, che non è un miraggio, perché ne abbiamo memoria ed esperienza, anche se, in noi e fuori di noi, avverse potenze la respingono ogni volta nella dimenticanza.

Giorgio Agamben

Susan Seddon Boulet 1941-1997

Relazione e cura di Sebirblu.blogspot.it


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