venerdì 4 aprile 2025

Thomas Merton presenta "La Saggezza del Deserto"

"San Bruno pregante nel Deserto" di Jean Bernard Restout (1763)
 

Sebirblu, 3 aprile 2025

Thomas Merton nacque a Prades, nei Pirenei francesi, nel 1915. Figlio di un pittore neozelandese e di una quacchera americana, studiò in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove si laureò in lettere alla Columbia University.

Da un entusiasmo giovanile per le idee comuniste, nel 1938 passò alla religione cattolica. Durante il periodo della conversione, e sotto l'influenza della poesia di T.S. Eliot e della filosofia di J. Maritain, iniziò a scrivere versi, pubblicando nel 1944 la prima (Thirty Poems) di una decina di raccolte che continuò periodicamente a pubblicare per tutto l'arco della sua vita.

Nel 1941 entrò nel monastero trappista di Gethsemani, nel Kentucky, assumendo il nome di Father Maria Louis. Le esperienze che lo condussero a questo passo sono narrate ne La montagna dalle sette balze, che, edito nel 1948, ebbe immediatamente un grande successo. Morì all'improvviso nel corso di un incontro tra monaci cristiani e orientali a Bangkok, nel 1968.

Tra le altre sue opere, dedicate prevalentemente alla revisione in chiave moderna dei grandi temi della tradizione monastica medievale, si ricordano: Le acque di Siloe (1949), Semi di contemplazione (1949), Il segno di Giona (1952), Nessun uomo è un'isola (1953), Mistici e maestri Zen (1967).


Thomas Merton e il Dalai Lama

Qui, in sintesi, ecco alcuni brani scelti dall'introduzione del suo libro: 

"La Saggezza del deserto".

«Nel quarto secolo dopo Cristo i deserti dell'Egitto, della Palestina, dell'Arabia e della Persia erano popolati da un genere di uomini che si lasciavano alle spalle una strana reputazione. Erano i primi eremiti cristiani, che abbandonavano le città pagane per vivere in solitudine.

Quella società, chiusa dentro gli orizzonti e le prospettive della vita mondana, era considerata da loro come un naufragio da cui ogni individuo doveva cercare scampo per sopravvivere. Erano convinti che lasciarsi andare alla deriva, accettandone passivamente i dogmi e i valori ad essi noti, fosse un vero e proprio disastro.

Ciò che a tutt'oggi può sembrarci curioso è che questa paradossale fuga dal mondo raggiunse le sue massime dimensioni (direi quasi il parossismo) quando il "mondo" divenne ufficialmente cristiano.

Ovviamente riconoscevano l'autorità benevola dei loro vescovi, ispirata a principi gerarchici: ma quelli erano molto lontani e parlavano poco di ciò che accadeva nel deserto fino al grande conflitto suscitato dal pensiero di Origène alla fine del quarto secolo.

Ciò che i Padri ricercavano, più di ogni altra cosa, era l'assimilazione a Cristo. Per ottenerla dovevano rifiutare completamente quella falsa e formale delle convenzioni di allora.

La loro evasione verso gli aridi orizzonti del deserto significava anche il rifiuto di accontentarsi di argomentazioni, concetti e verbosità tecniche. Stiamo parlando esclusivamente di eremiti. Questi erano più liberi da ogni punto di vista. Non c'era alcunché a cui dovessero "conformarsi", tranne la segreta, nascosta, imperscrutabile volontà di Dio, che poteva essere notevolmente diversa da una cella all'altra.

L'eremita doveva essere un uomo maturo nella fede, umile e distaccato da sé ad un livello addirittura terribile. Un Padre del deserto non poteva permettersi di essere illuminista, non poteva rischiare di attaccarsi al proprio "io" o di provare la pericolosa estasi della volontà personale; né mantenere la benché minima identificazione con il proprio sé umano, transitorio, auto-costruito.


Immagine tratta dalla copertina de "La Saggezza del Deserto"

Doveva morire ai valori dell'esistenza transitoria come Cristo era morto ad essi sulla Croce e Risorto dai morti alla Luce di una saggezza completamente nuova: una vita di solitudine e fatica, di povertà e digiuno, di carità e preghiera, che metteva il vecchio "io"  superficiale  nella  condizione  di purificarsi  e consentiva  la  graduale  comparsa del VERO "IO" segreto, in cui il credente e Cristo erano "un solo Spirito". (Cfr. QUI, QUI, QUI, QUI e QUI; ndr).

Alla fine, il risultato immediato di tutti questi sforzi era la "purezza di cuore" una chiarissima e libera visione del reale stato delle cose, la comprensione istintiva che la propria realtà interna era ancorata a Dio, o piuttosto perduta in Lui tramite la Figura del Cristo.

Da numerosi punti di vista, i Padri del deserto hanno molto in comune con i seguaci dello Yoga in India o con i monaci del Buddismo Zen della Cina e del Giappone. In loro si trovano tutte le caratteristiche di una netta rottura con un contesto sociale stereotipato per cercare scampo in un "vuoto" apparentemente irrazionale.

Essi furono pionieri, senza altri esempi da seguire che quello di alcuni profeti, come san Giovanni Battista, Elia, Eliseo, e gli Apostoli, che pure servirono loro da modelli. Per il resto, scelsero la vita degli angeli e i sentieri che percorsero furono quelli difficili degli spiriti invisibili.

Tali Padri distillavano per se stessi una saggezza decisamente pratica e senza pretese, al tempo stesso primitiva e senza età. L'epoca nostra ha un disperato bisogno di questo tipo di semplicità, ha bisogno di recuperare un po' dell'esperienza riflessa in queste righe: la parola da mettere in rilievo è «esperienza».

Da quando san Benedetto da Norcia nella sua Regola prescrisse che le "parole dei Padri" fossero lette ad alta voce prima della Compieta, esse furono patrimonio della tradizione monastica.

Chi andava nel deserto alla ricerca della "salvezza" chiedeva agli anziani una "parola" che lo potesse aiutare un verbum salutis, una "parola di salvezza". Le risposte non intendevano essere ricette generali, universali; piuttosto erano in origine chiavi concrete e precise per certe porte, attraverso le quali dovevano passare, in un dato tempo, determinati individui.

I Padri erano umili e silenziosi, e non avevano molto da dire; rispondevano alle domande in pochissime  parole, in modo puntuale. Piuttosto che fornire un principio astratto, preferivano raccontare una storiella pratica.

Le realtà fondamentali della vita interiore sono: fede, umiltà, carità, mansuetudine, prudenza, negazione di sé. Ma la qualità più rilevante delle "parole di salvezza" è il loro senso comune.

Erano individui semplici, tranquilli, sensibili, che avevano raggiunto una profonda conoscenza della natura umana e una tale comprensione delle cose divine da rendersi conto che riguardo a Dio sapevano ben poco.


"San Girolamo nel Deserto", di Giovanni Bellini

Per questo non erano molto disposti a fare lunghi discorsi sull'Essenza Divina o a dissertare sul significato mistico delle Scritture. Se parlavano e parlano poco di Dio è perché sanno che, quando si è stati vicinissimi alla Sua dimora, il silenzio vale più di molte parole.

Il fatto  che  l'Egitto  in  quel  tempo  fosse in subbuglio  per  le  controversie  religiose e intellettuali era la ragione migliore per tenere la bocca chiusa. Era l'epoca dei Neoplatonici, degli Gnostici, degli Stoici e dei Pitagorici.

Era l'epoca dei vari gruppi di Cristiani ortodossi ed eretici. Quella degli Ariani, a cui i monaci del deserto resistevano con veemenza ed era il tempo dei discepoli di Origène (di cui alcuni monaci erano fedeli seguaci).

In tutto questo frastuono, il deserto non aveva altro da offrire che un silenzio discreto e distaccato. I grandi centri monastici del quarto secolo si trovavano in Egitto, Arabia e Palestina. Molte delle storie che riporto (scrive sempre l'Autore; ndr) riguardano eremiti di Nitria e Sceta, nell'Egitto settentrionale presso le coste del Mediterraneo e ad ovest del Nilo.

La Palestina aveva anticamente attratto monaci da tutte le parti del mondo cristiano: il più famoso di loro fu san Gerolamo, che visse e tradusse le Scritture in una spelonca a Betlemme. C'era anche un'importante colonia di monaci nei pressi del Monte Sinai in Egitto, ossia i fondatori del "Monastero di Santa Caterina" venuto recentemente alla ribalta per la "scoperta" delle opere d'arte bizantine che vi sono conservate.

I Padri del deserto, ispirati da Clemente, da Origène e dalla tradizione neo-platonica, talvolta erano sicuri di potersi ergere al di sopra di tutte le passioni e di diventare inaccessibili alla collera, alla lussuria, all'orgoglio e a tutto il resto.

L'elogio ai monaci, come esseri "al di sopra di tutte le passioni", in verità sembra provenire da viaggiatori di passaggio nel deserto che in seguito ne scrivevano libri, piuttosto che da coloro che vi avevano trascorso l'intera vita.

Carità e ospitalità erano di primaria importanza e avevano la precedenza sul digiuno e le singole pratiche ascetiche. I numerosissimi racconti che testimoniano questa accoglienza calorosa sarebbero sufficienti a far giustizia delle accuse mosse a questi uomini di odiare la loro specie. Anzi, c'era più amore vero, comprensione e cordialità nel deserto che nelle città, dove, allora come adesso, ogni uomo pensava a sé.

Questo è molto rilevante, perché la vera essenza del messaggio cristiano è la carità, l'unità in Cristo. L'Amore rappresenta di fatto la vita spirituale, e senza di esso tutti gli altri esercizi dello spirito, per quanto elevati, risultano interamente privi di contenuto, diventando pure illusioni.

"Amare" significa identificazione profonda con un fratello, in modo che questi non venga visto come "qualcuno" a cui si "fa del bene".

La carità dei Padri non si presenta a noi in forma di effusioni poco persuasive. L'Amore richiede un completo mutamento interiore, perché senza di questo non è possibile arrivare ad immedesimarci nei nostri simili. E ciò comporta una specie di morte a noi stessi, del nostro "io" tanto amato.

Per quanto ci sforziamo, opponiamo resistenza a tale morte: reagiamo con rabbia, con recriminazioni, pretese ed ultimatum; cerchiamo qualsiasi pretesto adatto a litigare e ad abbandonare questo compito difficile.

La preghiera è il vero cuore della vita nel deserto e consiste nella salmodia (preghiera memorizzata e cantata nella recitazione dei Salmi e di altre parti delle Scritture) e nella contemplazione.


Andrey Shishkin

Il monaco doveva rimanere tranquillo il più possibile in un solo luogo. Alcuni Padri disapprovavano persino coloro che cercavano lavoro al di fuori delle loro celle e che lavoravano per gli agricoltori della valle del Nilo durante la stagione estiva.

In conclusione, in queste pagine incontriamo parecchie personalità note e sobrie, come l'Abate Antonio che è proprio il grande sant'Antonio (patrono degli animali; ndr), Padre di tutti gli eremiti. Esiste una sua biografia, opera di sant'Atanasio, che fece ardere di vocazioni monastiche la civiltà romana di quel tempo.

Tali monaci insistevano nel rimanere "umani" e "normali". Questo può apparire paradossale, ma è molto importante. Se riflettiamo un poco, ci accorgeremo che fuggire nel deserto per porsi al di fuori della norma significa unicamente portarsi il mondo dentro come implicito modello di riferimento.

Gli uomini semplici che vissero la loro esistenza fino ad una bella età, tra rocce e sabbie, lo fecero solo perché erano venuti nel deserto per essere sé stessi com'erano normalmente, e per dimenticare una compagine che li allontanava dal loro sentire.

Non ci può essere nessun'altra ragione valida per ricercare la solitudine e per lasciare l'ambiente in cui si è nati. Così, lasciandolo, vuol dire di fatto aiutarlo a "salvarsi", emendando sé stessi. Questo è il punto d'arrivo, ed è fondamentale.

Gli eremiti copti che abbandonavano i loro luoghi natii come per salvarsi da un "naufragio" non intendevano semplicemente conquistare il Paradiso. Sapevano di essere nell'impossibilità di fare del Bene ad altri finché si aggiravano fra i "relitti". Ma una volta che avevano messo piede sulla "terraferma", le cose cambiavano. Allora non avevano solo il potere ma anche l'obbligo di trarre in salvo l'umanità intera dietro di loro.

Questa è la sconcertante lezione da trarre per il nostro tempo. Sarebbe forse troppo dire che la Terra ha bisogno di un altro movimento come quello che portò questi uomini nei deserti dell'Egitto e della Palestina. La nostra è certamente un'epoca di solitari e di eremiti. Ma accontentarsi di imitare la semplicità, l'austerità e la preghiera di queste anime belle non è una risposta completa e adeguata.

Noi dobbiamo liberarci, a modo nostro, dai lacci di un contesto che sta naufragando. Ma al contrario dei loro, i vincoli nostri sono più stretti. Il rischio che corriamo è molto più preoccupante. Il tempo che abbiamo a disposizione, forse, è assai più breve di quanto pensiamo.

Non possiamo compiere esattamente ciò che fecero loro. Ma dobbiamo essere decisi ed ostinati nella nostra determinazione a spezzare tutte le catene e a respingere il predominio delle imposizioni esterne, al fine di trovare il nostro VERO IO, per scoprire e far crescere la nostra inalienabile libertà spirituale ed usarla per costruire, sulla Terra, il Regno dell'Eterno Padre.

In poche parole, abbiamo bisogno di apprendere da questi uomini del quarto secolo come ignorare il pregiudizio, sfidare le costrizioni esterne, e lanciarci senza paura nell'ignoto.»


Sant'Antonio Abate esorcizza i demoni nel deserto

Ecco alcuni esempi finali, tratti dal piccolo libro di questo grande uomo:

«L'Abate Anastasio aveva un libro scritto su pergamena finissima, che valeva diciotto soldi, e in esso aveva sia il Vecchio che il Nuovo Testamento in versione integrale. Una volta, un fratello venne a trovarlo e vedendo il libro se ne andò con esso.

Così il giorno in cui l'Abate Anastasio andò per leggerlo, trovò che non c'era più... capì che il fratello l'aveva preso. Ma non gli mandò dietro nessuno, per chiederne notizia, per timore che quello potesse aggiungere una bugia al furto.

Poi il fratello scese nella città più vicina per vendere il libro. E il prezzo che chiese fu di sedici soldi. Il compratore disse: "Dammi il libro, affinché possa scoprire se vale tanto". Con ciò, egli portò il testo da valutare a sant'Anastasio dicendogli: "Padre, dà un'occhiata a questo libro, per favore, e dimmi se pensi che dovrei comprarlo per sedici soldi. Vale dunque così tanto?"

L'Abate Anastasio rispose: "Si, è un bel libro, vale interamente quel prezzo". Così il compratore ritornò dal fratello svelandogli: "Ecco il tuo denaro... Ho mostrato il libro all'Abate Anastasio, il quale ha sostenuto che è bello e che vale almeno sedici soldi".

E il fratello chiese: tutto ciò che ha detto? Ha fatto altre osservazioni?" "No", rispose il compratore, "non ha aggiunto altro". "Beh!" replicò il fratello "ho cambiato idea, e dopo tutto non voglio vendere questo libro".

Allora andò di corsa dall'Abate Anastasio e lo supplicò in lacrime di riprendersi il libro. Ma il sant'uomo non volle accettarlo, dicendo: "Va' in pace, fratello, te ne faccio dono". Ma quegli riprese: "Se non lo riprenderai, non avrò mai più pace".


E dopo quell'episodio il fratello abitò con l'Abate Anastasio per il resto della sua vita.»

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«L'Abate Antonio impartiva all'Abate Ammone questo insegnamento: "Devi fare sempre più progressi nel timore di Dio". E portandolo fuori dalla cella gli mostrò un sasso dicendo: "Va' ad insultare quel sasso e battilo senza sosta". Quando l'Abate Ammone ebbe fatto ciò che gli era stato comandato, sant'Antonio gli chiese se il sasso avesse risposto. Ammone rispose di no. Allora l'Abate Antonio disse: "Anche tu devi arrivare a non offenderti più di niente".»

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Un filosofo chiese a Sant'Antonio: "Padre, come puoi essere così felice quando sei privato della consolazione dei libri?" Antonio rispose: "Il mio libro, o filosofo, è la natura, e ogni volta che voglio leggere le parole di Dio, il libro è davanti a me".»

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«Raccontavano di un vecchio che moriva a Sceta: i confratelli circondarono il suo letto, lo vestirono e iniziarono a piangere; ma quello aprì gli occhi e si mise a ridere, e rise ancora una seconda volta e poi una terza.

I fratelli vedendolo gli chiesero: "Dicci, o Padre, perché mentre noi piangiamo tu ridi?" Ed egli rispose loro: "La prima volta ho riso perché voi temete la morte, la seconda perché non siete pronti a morire; la terza perché dalla fatica approdo al riposo, e voi piangete". Dopo aver detto questo, immediatamente chiuse gli occhi e trapassò.»

Thomas Merton - ritratto di anonimo.

«Un fratello forestiero andò dall'Abate Silvano, sul monte Sinai, e vedendo che i confratelli lavoravano, disse loro: "Perché vi occupate di un cibo che perisce? Maria infatti ha scelto la parte migliore." (Lc 10, 38-42). Allora il vecchio disse al suo discepolo Zaccaria: "Dagli un libro da leggere e prima di tutto mettilo in una piccola cella".

Ma all'ora nona (le tre pomeridiane; ndr) quel fratello guardava nella strada nel caso il vegliardo lo mandasse a chiamare per mangiare. E dopo che fu trascorsa quell'ora nona andò da lui dicendogli: "Forse oggi i confratelli non hanno pranzato, Padre?" Quando questi rispose di sì l'altro disse: "Perché non mi hai fatto chiamare?"

Allora l'Abate Silvano gli rispose: "Tu sei un uomo spirituale e non hai bisogno di questo cibo; noi invece, in quanto fatti di carne ed ossa, abbiamo bisogno di mangiare e perciò lavoriamo, mentre tu hai scelto la parte migliore. Infatti tu leggi tutto il giorno e non vuoi ricevere il cibo materiale".

Dopo aver udito queste parole, quello iniziò a pentirsi e a dire: "Perdonami, Padre"  allora Silvano gli precisò: "Dunque Marta è necessaria a Maria, infatti grazie a Marta anche Maria viene lodata".»


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Relazione e cura di Sebirblu.blogspot.it

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