Sebirblu, 16 ottobre 2024
Era l'anno '80/'81 quando venni in contatto con un libro eccezionale regalatomi da un personaggio straordinario ‒ Mario Garlasco (ved. QUI) ‒ il quale, oltre ad essere già conosciuto come medico precursore dell'omeopatia in Italia, fondò la casa editrice "Edium" che, per la prima volta nel 1979 pubblicò nella nostra lingua la storia che ora mi accingo ad esporre.
Egli, presentatomi da amici in comune, non conosceva ancora il modo in cui certe 'manifestazioni' potessero aver luogo ma, come studioso, era dotato di una sensibilità particolare che lo poneva in uno stato ricettivo e privilegiato davanti a qualsivoglia richiamo trascendente.
Avevo spesso con lui scambi reciproci su temi che entrambi condividevamo e, visto che da circa due lustri avevo iniziato la mia ricerca spirituale sul senso della vita e la sua continuità oltre la fittizia "barriera" fisica, avevo realizzato che "non siamo soli" e che, come dice l'Oriente, "Quando il discepolo è pronto, il Maestro compare".
E così avvenne per me. In quel lasso di tempo passato, il mio "bussare" alla Porta Infinita fece in modo che una "finestra" si aprisse, inondando il cuore e la mente di una Luce sconosciuta ed elevatissima: l'«Ultrafanìa»* ‒ al fine di trasmettermi la Via, la Verità e la Vita, seguendo le orme cristiche.
*[Emissione angelica di potenti onde-pensiero, chiamate "Nouri" che, percuotendo la ghiandola pineale (ved. QUI) di uno 'strumento' adatto non solo fisicamente, ma soprattutto spiritualmente, ammaestra in modo precipuo sul cammino indicato e vissuto dal Cristo. Cfr. anche QUI, QUI e QUI].
Ebbene, appena aprii il testo mi accorsi della provenienza sublime del suo contenuto e della preziosa opportunità offerta dal Cielo a coloro che, assetati, si predispongono ad accogliere e ad abbeverarsi con l'«acqua» purissima di Gesù‒Amore, estinguendo così, per sempre, la propria sete.
Nondimeno, tali "Dialoghi" non sono per tutti, poiché prima di accedervi e assimilarli è indispensabile avere l'«orecchio» affinato, quel «sentire d'anima» che permette, intuitivamente, di recepirne il profondo significato.
Brian Jekel |
Disse l'Angelo:
«Per poter comunicare, io devo abbassare le mie vibrazioni
e voi dovete alzare le vostre...»
Nel momento difficile che stiamo vivendo, simile per certi aspetti al periodo della seconda guerra mondiale in cui Gitta (l'interlocutrice dei dialoghi con l'Angelo) ha descritto l'esperienza vissuta insieme ai suoi amici ebrei, si può constatare quanto l'incertezza, la paura e la divisione siano, di fatto, gli stati d'animo che perturbano e rallentano le vibrazioni umane.
L'Angelo consiglia perciò di elevare il più possibile il tenore dei pensieri, prima di congiungersi con l'Infinito in attesa di una risposta fruttuosa, così come i "Servi del Signore" riducono al minimo la loro frequenza vibratoria per entrare in contatto con gli uomini ed illuminarli.
Ecco l'introduzione che Gitta Mallasz (sopravvissuta all'eccidio perché unica cristiana dei quattro amici), antepose al libro per rendere edotti i lettori non soltanto di quei tragici eventi, ma del modo assolutamente speciale in cui il Cielo si manifestò per sorreggere e preparare quello sparuto gruppo di persone in imminente pericolo di vita.
«Conobbi Hanna nel 1923 alla Scuola d'Arte di Budapest. Il suo tavolo da disegno era vicino al mio. Avevo sedici anni. Fin dal primo momento, Hanna mi dimostrò apertamente una così viva amicizia che a me, cresciuta in una famiglia di militari dove ogni manifestazione affettuosa era considerata segno di debolezza, apparve eccessiva.
Hanna (il cui padre era direttore di scuola elementare) era abituata invece alla più aperta atmosfera di una famiglia ebrea, e non provava imbarazzo alcuno ad esprimere i suoi sentimenti. Nei tre anni della scuola, vi fu tra noi il legame di un'amicizia molto intima; ma, dopo gli esami, la vidi solo raramente.
Mentre essa dava seguito ai suoi studi a Monaco di Baviera, io mi gettavo a capofitto nello sport; per cinque anni mi abbandonai all'ebbrezza di quella popolarità quasi idolatra che l'Ungheria riserva ai suoi campioni.
Fu in questo periodo che conobbi Lili: insegnava ginnastica e rilassamento. Ricca di bontà per natura, era di indole dolcissima. I suoi corsi erano molto apprezzati, perché gli allievi vi trovavano qualcosa di più intenso del relax fisico, anche se non riuscivano a definire cosa.
Nel frattempo, avevo scarse notizie di Hanna; seppi soltanto che si era sposata con Joseph, un amico d'infanzia. Egli era un uomo calmo che, malgrado l'aspetto fragile, aveva un'influenza molto positiva su coloro che lo circondavano.
Nel caffè del piccolo villaggio dove in seguito andammo a vivere, ebbi modo di vedere come aspre discussioni politiche si calmavano fino a spegnersi per il semplice effetto della sua presenza silenziosa. All'epoca del suo matrimonio, egli faceva l'arredatore e il disegnatore di mobili.
Alla fine, profondamente stanca di una vita tutta dedita allo sport, decisi di andare a cercare la cara Hanna e suo marito. Abitavano in uno studio luminoso, da cui la vista spaziava sul Danubio all'infinito.
Con molta pazienza ella mi aiutò a riprendere la mia attività artistica: alla scuola ero stata una buona allieva ma ora, dopo anni in cui avevo conosciuto solo la brutale competizione del nuoto, mi ritrovai incapace di disegnare il corpo umano. Senza la sua guida, non avrei mai ritrovato la gioia di creare. In tre riuscimmo ad organizzare un laboratorio la cui fama si diffuse ben presto.
Gitta Mallasz (1907-1992) |
Nel 1934-35 già esisteva in Ungheria l'antisemitismo; così fui io che, grazie alla mia fama di sportiva e alla posizione di mio padre, ufficiale superiore dell'esercito, potei ottenere ordinazioni importanti (commissioni nell'ambito del turismo, esposizioni in Ungheria e all'estero).
Spesso, per non far sapere in ambienti pubblici che i due amici con i quali lavoravo erano ebrei, ero costretta a giocare d'astuzia.
Ma la vera anima dell'impresa era Hanna. Dotata di vivace intelligenza e di capacità eccezionale di concentrazione, essa riusciva a valutare all'istante gli aspetti essenziali di un progetto, sia sul piano creativo quanto nei confronti dell'esecuzione pratica.
La sua logica riguardo ai problemi della vita quotidiana era infallibile, come pure non venivano mai meno il suo buon senso e l'humor. Hanna aveva già alcuni allievi; fra loro, una ragazza di nome Vera che in seguito mi disse:
«Le esigenze e l'intensità dell'insegnamento di Hanna non si limitavano a considerare l'aspetto professionale di un carattere; si rivolgevano all'intera persona, cosicché solo pochi fra noi erano in grado di sopportarlo. Gli altri lasciavano i suoi corsi.
Quando Hanna correggeva un disegno o un progetto, l'autore si sentiva coinvolto nel profondo. Ella riteneva l'espressione plastica (persino la pubblicità più comune) come un riflesso della situazione interiore dell'artista. L'opera diventava un'occasione per rettificare al meglio anche la sua singola personalità; compiva tutto questo con affetto e leggerezza infiniti.
Durante le correzioni, il nostro rapporto con lei assumeva un aspetto completamente diverso dal consueto; i nostri disegni acquistavano ai suoi occhi il valore che può avere una radiografia per un medico. D'intuito, essa passava ad un'altra lunghezza d'onda e diveniva lo strumento consapevole della nostra maturazione umana e di conseguenza del nostro progresso professionale.
Prima di esprimere le sue rettifiche a parole, non aveva la minima idea di quel che avrebbe detto e si trovava infine a dire cose assolutamente nuove perfino a sé stessa.»
(Tutti indizi molto precisi della sua propensione naturale alla medianità superiore, rendendola "tramite" di correnti ultrafàniche soccorritrici. Ndr).
Mario Duguay |
Ero una giovane allieva, una discepola; le volevo molto bene. Hanna era la mia maestra incontestabile, e tuttavia non amava il mio attaccamento. Solo molto tempo dopo ho capito l'importanza di questo suo pensiero. Era solita dire: "Ti sarà possibile restare con me per due o tre anni ancora; poi, il Maestro deve esistere in te stessa".
Tentava inoltre di sviluppare in noi quello che definiva L'UOMO NUOVO. Con ciò essa intendeva l'individuo creativo (l'Ego superiore, detto Monade o Particella divina; ved. QUI, QUI, QUI e QUI, ndr), libero dalla paura».
Benché il nostro laboratorio prosperasse, avevamo sempre più la sensazione che quel modo di vivere poggiasse sul nulla. Di giorno in giorno aumentava la cecità collettiva; la marea della menzogna organizzata andava intanto salendo senza tregua (proprio come sta succedendo ora! Ndr); e insieme cresceva la nostra sete di ricerca: dov'era il senso della vita? Dove stava celato?
Tutto questo ci indusse a prendere in affitto una piccola casa in un villaggio non lontano da Budapest. Ci trasferimmo a Budaliget e riducemmo gli impegni di lavoro al minimo indispensabile per vivere. Lili ci raggiungeva ogni fine settimana.
Questo genere di vita era favorevole ad una ben più intensa vita interiore; tuttavia, in quanto a me, dapprima provai solo un senso di vuoto e di attesa. Passeggiavo a lungo nei boschi, quasi aspettando cose che ignoravo.
Ogni sera, dopo il lavoro, ci impegnavamo in conversazioni appassionate in cui l'unica luce era la penetrante intuizione di Hanna, ma ci sentivamo tutti ad un punto morto. (Nessuno di noi praticava la propria religione).
Non riuscivamo a comprendere questo mondo in cui regnavano menzogna e sordida brutalità, e dove il Male sembrava celebrare la sua vittoria. Che senso aveva la vita? Questo non riuscivamo a scoprire, anche se eravamo convinti che esistesse e che l'unico ostacolo al trovarlo era dentro di noi.
Una sera decidemmo che ciascuno di noi avrebbe sintetizzato per iscritto i suoi problemi, così da poterne discutere con maggior profitto insieme agli altri. Di lì a pochi giorni, all'ora del caffè, lessi ad alta voce quello che avevo scritto.
Hanna giudicò il mio diario un "raccogliticcio di idee rifritte" delle quali avevamo ormai discusso più volte insieme. Irritata al massimo dal mio fallimento, cominciai a porre domande alle quali avrei potuto anche rispondere da sola, trovando più comodo rivolgermi ad Hanna e attendere tranquillamente che fosse lei a "scodellarmi" le risposte.»
[Da qui hanno inizio gli appunti presi nel corso dei "colloqui" che ebbero luogo per 17 mesi, ogni venerdì intorno alle tre del pomeriggio.]
Locandina del film (ved. QUI) |
Questo è ciò che scrisse Gitta Mallasz all'inizio del libro. Riporto, a seguire, anche le parole conclusive della illuminante raccolta. Lascio ai "ricercatori" VERI la lettura, la riflessione e l'analisi dei "Dialoghi", rintracciabili comodamente anche in rete: QUI.
«L'Armata Rossa si avvicina. Tutto comincia a sgretolarsi: si presagisce la fine. Il 2 dicembre, un'operaia si precipita nel mio ufficio e, tutta affannata, mi dice che una compagnia di soldati ungheresi "Nyilas" ha forzato la porta sulla strada e sarà presto nel laboratorio.
Immediatamente corro fuori, alla piccola apertura segreta che dà nel giardino delle SS, per chiedere aiuto. In quella frenetica corsa vivo gli istanti più cupi della mia vita. Sapendo bene che ogni secondo conta, corro con tutte le mie forze, ma ho insieme la terribile sensazione di essere inchiodata al suolo, come se il peso della Terra intera ritardasse il mio avanzare; con tutta me stessa sento giungere la catastrofe.
Finalmente arrivo. I tedeschi, afferrate le bombe a mano, corrono verso il convento insieme a me. Alla vista delle SS, i nazisti ungheresi indietreggiano. Io sussurro ad un'operaia: "Di' a tutti di fuggire immediatamente!"
In quell'attimo accade qualcosa di incredibile. Le SS tedesche proteggono la fuga delle donne e dei bambini ebrei dai nazisti ungheresi! Due SS si pongono a guardia dell'apertura dissimulata fra i due giardini pronte a lanciare le loro bombe a mano contro chiunque tenti di opporsi all'azione. Intanto incoraggiano la fuga con gesti vigorosi e grida di "Schnell, lauft schnell!" Tutto questo si svolge sul retro della casa.
Nel frattempo, sulla parte antistante, il caporale SS, l'ufficiale ungherese ed io stiamo a negoziare. Arriva anche padre Klinda e tenta di persuadere il graduato a ritirarsi, ma questi gli volge le spalle e impartisce alle SS l'ordine di deportazione.
Vedo con chiarezza che l'unica cosa da fare è guadagnare tempo. Faccio da interprete fra caporale SS e ufficiale ungherese, imbrogliando il più possibile la situazione.
Per complicarla ancora, dico con voce minacciosa all'ungherese che, se osa alzare un dito su qualcuno di noi, ne subirà personalmente le conseguenze, e gli sventolo sotto il naso il mio certificato tedesco con la svastica, affermando nel contempo che la nostra fabbrica è sotto protezione tedesca.
Provo a dire tutto questo perché il caporale SS non conosce una parola in magiaro e l'ufficiale ungherese, a sua volta, nulla di tedesco. In ogni modo, la croce uncinata fa il suo effetto; vedo chiaramente, dal suo mostrarsi più cortese, che quest'ultimo non vuole rischiare di prendere granchi.
Per nostra disgrazia, tuttavia, è un uomo intelligente e, dopo un attimo di riflessione, si dichiara pronto a ritirare i propri soldati solo se il colonnello SS in persona gli confermerà telefonicamente che la nostra fabbrica è sotto la sua tutela.
Momento cruciale, dato che, ne sono certa, il colonnello SS è all'oscuro delle visite amichevoli dei suoi subordinati. Comunque, il tempo di salire nell'ufficio e di telefonare mi fa guadagnare ancora alcuni minuti, di cui c'è un bisogno vitale.
In effetti, un'operaia riesce a comunicarmi che la maggioranza delle donne e dei bambini è fuggita dall'uscita segreta, verso la foresta; rimangono nella casa solo alcune donne più lente o indecise. Le dico di obbligare tutte alla fuga.
Nel frattempo, il caporale SS è riuscito infine a mettersi in contatto con il suo superiore, dal quale riceve ovviamente l'irato ordine di non immischiarsi nella faccenda. È la fine della mia astuzia. Le SS tedesche si ritirano.
Esco dall'ufficio insieme all'ungherese che con grande stupore constata la scomparsa delle operaie. Do un'occhiata in giardino e rimango agghiacciata nel vedere un gruppo di tredici donne tenute sotto sorveglianza dai soldati magiari. Sono le malate, le indecise, le anziane e le due che hanno deciso di non salvarsi: Hanna e Lili.
Non fu desiderio di martirio il loro; esse amavano troppo autenticamente la vita per abbandonarsi senza ragione alla morte. Temevano invece il furore dei nazisti ungheresi i quali, non trovando alcuno da deportare, avrebbero potuto ritorcersi su di me – uccidendomi – benché cristiana.
Inoltre percepivano che dovevo rimanere in vita, convinte com'erano che trasmettere i messaggi degli Angeli era missione mia.
Quel giorno stesso furono inviate a Ravensbruck, in Germania. Una sola delle operaie deportate è sopravvissuta. Mi ha raccontato che Lili, al campo, irraggiava un tale intenso amore che molte prigioniere si offrivano volontarie per i compiti più duri che lei sempre si trovava ad assolvere, spinte dal desiderio di esserle vicine e di provare il conforto della sua presenza.
Mi ha parlato anche di un altro episodio che non ricordo bene, perché ero troppo commossa all'annuncio del decesso di Lili ed Hanna.
Mentre rasavano i capelli alle prigioniere una sorvegliante SS si avvicinò ad Hanna: "Che cosa fai qui tu, con le trecce bionde, gli occhi azzurri e il naso diritto? Sei forse ariana?" E lei rispose: "No, io sono ebrea".
Ancora una volta, non era certamente il desiderio di morire che spingeva Hanna a dichiararsi tale. Lei, che per 17 mesi aveva trasmesso la PAROLA VERA, era diventata incapace di pronunciare anche una sola menzogna.
All'avvicinarsi degli "Alleati", il campo fu evacuato e le detenute – private dei loro indumenti – vennero ammassate, quasi nude, in carri bestiame dai vagoni piombati, dove stavano in piedi. Le donne vi morirono di fame e di epidemie in mezzo ai loro escrementi.
Una volta al giorno, le aguzzine SS aprivano i vagoni e le prigioniere gettavano fuori i cadaveri. Hanna e Lili morirono a poche ore di distanza l'una dall'altra.
Poi, veniva fatto firmare alle sopravvissute un attestato che dichiarava tutte le morti come "decessi naturali".
Nello stesso tempo del trapasso di sua moglie Hanna, Joseph moriva in un "campo di concentramento" in Ungheria. Tutte le donne e i bambini che erano fuggiti attraverso il Giardino delle SS sono invece sopravvissuti.»
Relazione e cura di Sebirblu.blogspot.it
Nessun commento:
Posta un commento